Vi siete mai chiesti perché i leoni non facciano altro, tutto il giorno, che montare le femmine, litigare tra maschi e starsene al sole con la pancia all'aria aspettando che le femmine portino una carcassa da sbranare?
Le società di Panthera leo si fondano, come la stragrande maggioranza delle società animali, sul principio della prosecuzione della linea genetica: ogni individuo ha l'interesse ultimo, quello intorno al quale ruota ogni sua azione, dall'alimentazione alla ricerca del cibo, dalla competizione intraspecifica alla costruzione/ricerca di un nido, nel far si che il proprio patrimonio genetico sopravviva alla propria generazione.
Come fanno i leoni maschi a garantirselo? Fecondano quante più leonesse possibile, arrivando a ripetere la monta oltre cinquanta volte in un giorno, e sterminando i cuccioli generati dal maschio cui hanno sottratto il territorio corredato di femmine fertili, gnu, corsi d'acqua e alberi a sufficienza da avere un po' d'ombra. Per questo l'unico compito dei leoni maschi nel branco è quello di tenere lontani gli altri maschi.
I cuccioli che crescono protetti dal proprio padre, una volta raggiunta quell'età in cui i romantici amano dire che al cuor non si comanda, sanno come se qualcuno glielo avesse spiegato nel dettaglio, che presi dalla tempesta ormonale della stagione degli amori, non sapranno riconoscere le proprie sorelle e, per evitare di accoppiarsi con loro, assecondano quel profondo risentimento che provano per i propri genitori e si allontanano dal branco. Adolescenza, dicono i poeti. Evitare l'inbreeding depression, dicono gli etologi.
E a noi?
A noi interessa eccome!
Se credete nell'evoluzione, e fareste bene a crederci, sapete che quel grumo di cellule che chiamiamo corpo è la più evoluta delle scimmie e, da buon primate, cosi come il leone è un Boreoeutheria, un mammifero, un tetrapode, un vertebrato e cordato.
Ogni cordato condivide con tutte le creature animali esistenti ed estinte, da 451 di milioni di anni ad oggi una struttura anatomica, la notocorda, dalla quale deriva, microevoluzione dopo microevoluzione e macroevoluzione dopo macroevoluzione, il sistema nervoso centrale di Homo sapiens.
La linea di separazione tra le specie da cui provengono i primati e le specie da cui provengono i carnivori è indicata all'incirca a 100 milioni di anni fa.
Se tanto mi da tanto, noi ed i leoni abbiamo 350 milioni di anni di evoluzione strettamente in comune. Questo non può che significare che ciò che spinge i leoni a scacciare un maschio per accoppiarsi con le sue femmine ed uccidergli i figli c'è anche nel nostro cervello.
Eppure se oggi considereremmo abominevole un'eventualità del genere qualcosa dev'essere successo.
Si, ma che cosa?
Quand'è che le leggi della natura sono cambiate?
Per quanto ne sappiamo, del nostro antenato più antico abbiamo pochi frammenti di ossa, sappiamo che era una femmina vissuta circa 1,7 milioni di anni fa nell'area che oggi chiamiamo Kenya. Sappiamo che KNM-ER-1808, questo è il suo nome, era malata. E' morta di ipervitaminosi A, H. erectus nella classificazione ma inabile a camminare. E' morta molto dopo aver perso l'uso delle gambe.
Questo ci dice che con lei, Homo ha smesso di essere un animale fra tanti, una scimmia qualunque. Homo ha imparato a prendersi cura degli inutili ed a sacrificare le proprie risorse per una causa persa.
La cronaca di questi giorni mi ha molto interrogato su tutto ciò.
Quanto devono essere potenti le sovrastrutture evolutive sociali che abbiamo sviluppato negli ultimi due o tre milioni di anni per metterci una pezza? Per fare un paragone più facilmente apprezzabile, potremmo chiederci quanto forte dovrebbe essere la motivazione che ci consentisse di cambiare a 70 anni un'abitudine che ci portiamo dietro dall'infanzia. Cosa effettivamente ci rende umani e cosa ci fa dimenticare di esserlo?
Ma soprattutto, che cosa ci dice il nostro passato che possa tessere il nostro futuro?
Se un uomo che minaccia la sua compagna arriva a sparare al figlio di lei che tenta di difenderla, sappiamo che ad agire è la parte più recondita del nostro inconscio; sappiamo che quanto abbiamo imparato con l'aver curato KNM-ER-1808 è stato dimenticato. Ma abbiamo anche dimenticato che se quel ragazzo avesse avuto un padre premuroso, nessuno avrebbe minacciato sua madre ne tanto meno sparato a lui.
Se una diciassettenne cede al dolore ed alla disperazione nell'indifferenza della società e nell'accondiscendenza dei propri genitori, allora vuol dire che abbiamo completamente perso l'istinto di proteggere il nostro patrimonio genetico e abbandonato la primordiale scintilla di umanità che ha permesso a KNM-ER-1808 di morire si, ma con l'indescritta sensazione di essere l'oltrescimmia: l'embrione dell'umanità.
Se un intero paese si interroga sul considerare deprecabile l'intrattenere relazioni carnali tra stretti consanguinei, allora abbiamo occultato un'evidenza tanto lampante da risultare determinante anche per chi non ha l'intelletto.
Non credo si possa considerare sbagliato, ritenere che stiamo andando alla velocità della luce verso la piena realizzazione del perfetto terreno di coltura in cui lasciar proliferare il peggio dell'eredità che abbiamo ricevuto. Un terreno di coltura in cui non c'è spazio per la cura a fondo perduto dell'inutile perché dignitoso in quanto uomo. In cui non c'è spazio per la faticosa costruzione del miglior contesto possibile, sacrificato ad un'asta al ribasso nella quale prendere come riferimento soltanto le condizioni peggiori osservate.
Ho paura che dell'uomo che verrà resterà tutto ciò che c'è stato tranne l'avvento dell'umanità.
E allora, se anche mantenessimo tutte le strutture anatomiche e le funzioni fisiologiche, ciò che diventeremo sarà di nuovo una scimmia e saremo esistiti inutilmente.
E' questo che vogliamo?
Non dovremmo invece invertire la rotta e continuare a chiederci in ogni istante come la scelta che stiamo per compiere possa rendere il futuro che ci aspetta il miglior futuro possibile?
E' senza ombra di dubbio uno sforzo enorme, ma non può essere più grande dello sforzo compiuto dai compagni di KNM-ER-1808 per tenerla in vita e darle la certezza di esistere.